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venerdì 23 agosto 2019

Fruits Basket

Fruits Basket, di Natsuki Takaya.

Ci sono tante cose di cui sono stata fangirl prima ancora di sapere cosa volesse dire.
Fruits Basket non è una di quelle: ero una fangirl, e sapevo esattamente cosa voleva dire.

Era il lontano 2002 quando uscì in Italia il primo volume di questo manga, pubblicato prima dalla Dynamic Italia e poi, quando cambiò nome, dalla Dynit (con conseguente bollino diverso sul dorso dei volumetti, a riprova che a noi collezionisti ci hanno sempre voluto male). La Dynit era una di quelle case editrici che faceva uscire i volumetti ogni credici, quindi tra un numero e l'altro soffrivi non sapendo se e quando avresti visto il prossimo.
Le scan non si trovavano, gli spoiler erano voci che giravano senza che si sapesse quanto ci fosse vero e ogni tanto qualcuno trovava un capitolo zippato in lingua originale che quelli alla seconda lezione del corso per corrispondenza di giapponese cercavano di decifrare.
Proliferavano i forum, però.
Fruits Basket sono state le prime teorie scritte con sconosciuti on-line, uniti dalla stessa passione. I primi tentativi di mettersi in pari coi giapponesi. Le prime maledizioni alla connessione che non permetteva di scaricare il vecchio anime.
Quindi spero che mi perdonerete se sarò assolutamente logorroica: troppi ricordi.

Toru Honda è una normale ragazzina di sedici anni: va al liceo, ha due amiche del cuore, si impegna tantissimo nello studio e nel lavoretto part-time perché non vuole proseguire gli studi ma lavorare.
E vive in una tenda, dato che è da poco rimasta orfana e il nonno - unico parente disposto ad ospitarla - deve ristrutturare la casa e nessun altro familiare vuole prenderla con sé durante i lavori. Una soluzione tutt'altro che ideale, ma fortunatamente c'è il cavaliere sulla scintillante armatura: viene scoperta da Yuki Soma, suo compagno di classe, che la invita a stare a casa sua e del cugino Shigure. Toru, inizialmente reticente, accetta.
Tuttavia la nostra eroina scopre presto che la famiglia Soma non è normale manco per nulla: sono praticamente un clan che vive seguendo rigidissime regole interne decise dal capofamiglia (a questo giro il più che volubile Akito), chiusissimo con gli estranei e ricchi da far spavento.
E sono anche maledetti: tra loro nascono individui colpiti dalla maledizione degli spiriti degli animali dello zodiaco cinese, condannati a trasformarsi nell'animale che rappresentano quando si scontrano o abbracciano esponenti del sesso opposto.
Che sembra una cavolata immane (ai tempi ricordo che pensai subito a una roba comica stile Ranma 1/2), ed è tanto divertente... per i primi due numeri.
In Fruits Basket diventa presto chiaro che non siamo di fronte ad una simpatica condizione fonte di gag ma una maledizione vera e propria: chi ne è colpito deve stare sempre all'erta, non ha nessuna possibilità di avere un'esistenza normale, di poter stringere rapporti sinceri e duraturi. Senza contare che, all'interno della famiglia, nel circolo di coloro che sono a conoscenza della maledizione, c'è una vera e propria gerarchia a seconda di quale animale sei, con pregiudizi e aspettative.
Prendete Kyo: cugino di Yuki e Shigure, è costretto a trasferirsi da loro. Lui è il gatto dello zodiaco cinese. Ma il gatto lì non c'è ed è proprio questo il punto: lui esiste per essere escluso, e quando inizia la storia non è che stia proprio benissimo dato che può contare sulle dita di una mano le persone che l'hanno trattato decentemente.

Ma di che parla, alla fine dei conti, questo manga? Si può dire che è la storia di come Toru entra nel tunnel oscuro che è la famiglia Soma e, dopo aver appurato che così non si può andare avanti, si rimbocca le maniche per salvarli tutti.
Perché Toru è quel personaggio che se lo metti nel 90% delle storie, te le risolve: è un inarrestabile cuoricino pieno di dolcezza, che non ha paura di nulla.
È un personaggio che raramente oggi si vede: è tontolina, è femminile, indossa abiti graziosi, le piacciono le faccende domestiche. Non si arrabbia, non ha battute argute, non esplode, si fa mettere i piedi in testa ed è apparentemente incapace di imporsi.
Che all'inizio può sembrare fastidiosa, ma poi lo capisci: lei non si perde mai d'animo. Sua madre è morta, e invece di lasciarsi sopraffare dal dolore gioisce dell'averla avuta. Nessun parente la vuole, e lei è grata al nonno perché la accoglie.
Toru non sopporta la sofferenza ma quando se la trova davanti non distoglie lo sguardo: interviene.
È come se all'improvviso scoprissi che un marshmallow vestito di rosa in realtà è una roccia.
C'è qualcosa che Akito non comprende: così come esistono esseri umani in grado di ferire gli altri, di sicuro esistono persone capaci di curare.
E poi, alla fine, la Takaya fa vedere che il comportamento di Toru - per quanto frutto della sua indole - ha delle motivazioni che proprio sane non sono, perché questo manga parla fondamentalmente di traumi, che pure chi non è traumatizzato malissimo in prima persona lo è per procura. Parla di rapporti, e di quanto è difficile incontrarsi a metà strada quando si è profondamente diversi. Parla di seconde possibilità, di perdono, di come sia giusto a volte essere un po' egoisti, di come non si possa vivere nel passato anche se andare avanti fa paura.
È un manga che cresce perché inizia che i personaggi sono stereotipi - Toru è dolce e femminile, Kyo è lo tsundere, Shigure è il simpatico pervertito - ma poi... crescono. Cambiano. Maturano.
Come succede nella vita.
C'è un motivo se Fruits Basket è diventato un classico moderno (moderno per me, visto che quando ho iniziato a leggere manga lo shoujo che battezzava tutti era Video Girl Ai), e non posso che consigliarvi di recuperare la ristampa che la Panini sta facendo uscire in questo periodo.
Anche il nuovo anime non è male, ma è una riproposizione estremamente fedele e ha alcuni lati negativi: è molto statico, perché Fruits Basket si concentra più sulla sfera interiore che sull'azione, e non rende la particolarità delle vignette dell'autrice. Diciamo che a me sta piacendo molto, ma lo trovo un gradino sotto la versione cartacea.

Nota: per i nomi ho usato l'adattamento della Dynit, anche se nel nuovo sono spuntate 'h' un po' ovunque.

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