lunedì 25 maggio 2020

Ogni mattina a Jenin

Ogni mattina a Jenin, di Susan Abulhawa.

Lo ammetto: era da tanto che un libro non mi faceva piangere.

Attraverso la voce di Amal, la brillante nipotina del patriarca della famiglia Abulheja, viviamo l'abbandono della casa dei suoi antenati di Ain Hod, nel 1948, per il campo profughi di Jenin. Assistiamo alle drammatiche vicende dei suoi due fratelli, costretti a diventare nemici: il primo rapito da neonato e diventato un soldato israeliano, il secondo che invece consacra la sua esistenza alla causa palestinese. E, in parallelo, si snoda la storia di Amal: l'infanzia, gli amori, i lutti, il matrimonio, la maternità e, infine, il suo bisogno di condividere questa storia con la figlia, per preservare il suo più grande amore. La storia della Palestina, intrecciata alle vicende di una famiglia che diventa simbolo delle famiglie palestinesi, si snoda nell'arco di quasi sessant'anni, attraverso gli episodi che hanno segnato la nascita di uno stato e la fine di un altro. In primo piano c'è la tragedia dell'esilio, la guerra, la perdita della terra e degli affetti, la vita nei campi profughi, come rifugiati, condannati a sopravvivere in attesa di una svolta. L'autrice non cerca i colpevoli tra gli israeliani, che anzi descrive con pietà, rispetto e consapevolezza, racconta invece la storia di tante vittime capaci di andare avanti solo grazie all'amore.

Non c'è altro modo per dirlo: ci sono libri che fanno malissimo.
Quando ho iniziato Ogni mattina a Jenin non sapevo a cosa stessi andando incontro: mi aspettavo un libro non esattamente fuori dalla mia confort zone, ma quantomeno fuori dalla mia area di competenza. Non mi aspettavo quello che sarà quasi sicuramente uno dei migliori libri del 2020, né un libro che ho prestato a mia madre (assassina di tascabili come pochi) perché non riuscivo a non pensare che si dovesse notare, che era stato letto.
Che era stato vissuto.

Ogni mattina a Jenin è quello che dice la quarta di copertina, eppure non basta a preparare il lettore alle tragedia di cui è impregnata ogni pagina: siamo di fronte ad una saga familiare, e seguiamo quattro generazioni di una famiglia palestinese, dalla nascita di Israele fino agli anni 2000.
In pratica vediamo il conflitto israeliano-palestinese con gli occhi di chi - semplicemente - ha avuto la sfortuna di nascere lì nel periodo storico sbagliato.
I personaggi che seguiamo perdono tutto, la casa, la terra, la patria, il futuro, e a loro rimane solo il ricordo di un passato migliore, calpestato perché le conseguenze dell'Olocausto sono più complesse di quello che ci insegnano a scuola (e chi va in giro dicendo che ormai è passato da tanto tempo e non serve parlarne è una capra).
Ogni mattina a Jenin è la ricerca della normalità e degli affetti familiari in un contesto di guerra talmente costante da essere divenuto lo sfondo su cui si prova a costruire la quotidianità. Un mondo così vicino e così lontano, dove in ogni momento può scoppiare un conflitto o una guerriglia, dove c'è un po di pace e poi tu - lettore - realizzi che siamo a Shatila negli anni '80, e lo sai, che la Abulhawa non si tirerà indietro, che ti mostrerà tutto del 18 settembre 1982.
E starai malissimo, perché questo è uno di quei casi dove i personaggi sono fittizi, ma di famiglie che hanno passato quello che noi leggiamo, ce ne sono state tante.
Vecchi giustiziati perché volevano tornare nelle loro case, neonati morti sotto i bombardamenti, bambini a cui sparano da un posto di blocco, donne annichilite dal dolore, la crescente consapevolezza che non sarà possibile - mai - creare qualcos'altro, trovare qualcos'altro, perché arriverà sempre qualcuno a portatelo via.
Tutto sotto gli occhi indifferenti dell'Occidente, dell'ONU che spicca per assenza e inutilità agli occhi di chi si trova a pescare la paglietta corta dal mucchio, ogni singola volta.
Però.
Però rimane il fatto che il titolo si riferisce ai ricordi di un padre che leggeva poesie a sua figlia, ogni mattina a Jenin. Rimane il fatto che la famiglia di Amal è disposta a tutto per farla studiare, e se anche non volesse farebbe di tutto per farla sentire amata.
Rimane l'impressione, forte e dolorosa, che gli israeliani si siano trovati in un conflitto che non volevano, e che nessuno sa come fermare.
Vittime contro vittime, soprattutto all'inizio. Quando un uomo ruba un neonato per amore di una moglie che si trova ancora all'ombra di un campo di sterminio, resa sterile dall'orrore nazista.

Ogni mattina a Jenin è un libro durissimo e doloroso, che fa ancora più male perché Susan Abulhawa riesce - non so come - a raccontare gli orrori di decenni di guerra con uno stile che trasuda bellezze e poesia, uno stile che sembrerebbe creato apposta per raccontare cose belle, e invece racconta cose orribili. Un po' come se lo stile riflettesse il libro: il potenziale di amore, bellezza, dolcezza, che però viene calpestato da una realtà sempre più tremenda, dove la possibilità di una vita migliore e di un futuro sicuro si può concretizzare solo andandosene, senza guardarsi indietro, e negando sé stessi per potersi integrare.

Una lettura quasi doverosa: vale ogni singola lacrima che fa versare.

4 commenti:

  1. La tua recensione mi ha fatto venire la pelle d'oca.

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  2. Dalle tue parole si capisce perfettamente che è un libro che lascia il segno e non può passare tra altri libri, lasciando indifferenti. Un consiglio di lettura che mi sembra prezioso. Grazie

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    1. È tanto bello e tanto triste. Mi ha colpito come non succedeva da tanto.

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