Stefan Zweig è un autore di cui ho letto solo le biografie, di cui ho imparato ad amare lo stile: la sua biografia su
Maria Antonietta è un libro che consiglio a chiunque. Per questo ero abbastanza incuriosita dalla sua produzione fuori da questo genere, e ho sempre sentito parlare molto bene di
Mendel dei libri: è un librino piccolo piccolo, appena 60 pagine, che lo inizi e sei perplesso perché sono 60 pagine, non dovrebbe partire col botto? Se comincia lento anzi lentissimo, come fa ad arrivare da qualsiasi parte, con così poche pagine?
E invece no. In questo librino conosciamo Jakob Mendel, un bibliofilo, un uomo con una memoria straordinaria, vero e proprio catalogo vivente, il cui unico interesse, la cui unica ragione di vita, sono i libri. Un eccentrico, conosciuto a tutti i professori ed intellettuali di Vienna e oltre, che a lui si rivolgono se hanno bisogno di qualcosa, di un libro sconosciuto su un oscuro argomento.
Sembra quasi l'incipit di una storia brillante, ma no. Perché siamo in Europa e perché a volte tendiamo a scordarci che c'è stata anche la Prima Guerra Mondiale, e in queste pagine la sua ombra è oscura e pesante, e anche se non vediamo una trincea nemmeno di sfuggita, è in grado di stritolare chi non fa nulla, se non sedersi in un bar e occuparsi di libri. E Zweig in 60 pagine ti trascina in un mondo dove le conseguenze del conflitto si manifestano anche nella miopia di burocrati che non guardano al singolo caso, e finiscono per distruggere una cosa bella e innocente e innocua, che non faceva male a nessuno.
Si legge in un soffio, ma rimane molto più pesante nella mente e nel cuore.
Io ho problemi con le storie dei nativi americani.
Quando avevo sei o sette anni ero completamente innamorata degli indiani d'America: nella classifica di cose meravigliose della me seienne c'erano i dinosauri e poi gli indiani. Per quello chiesi a mio padre se c'era modo di vederne uno, che oggi mi rendo conto delle implicazioni terrificanti di una richiesta del genere, ma per me ai tempi sarebbe stato l'equivalente di vedere i Rolling Stones in concerto. Mio padre mi disse di no, mi disse che i nativi americani come li intendevo io non esistevano più e io gli chiesi perché.
E lui me lo disse.
Fu il momento in cui scoprii che nel mondo succedono cose orribili e sbagliate, e non c'è nessun modo di rimetterle a posto, che non si possono aggiustare, mai. E io da allora non riesco ad approfondire quella parte di storia, quegli eventi, quelle culture.
Alce Nero parla, a mente fredda, un po' di perplessità la lascia: la testimonianza di un nativo, lo stregone Siux Alce Nero, riportata da John G. Neihardt, da un bianco, per i bianchi. Non solo: cercando qualche informazione in giro, pare che Neihardt abbia pure alterato parte del racconto e del modo di parlare di Alce Nero per rendere il libro più accessibile ai lettori bianchi. Però, nonostante tutti i problemi, ho trovato la lettura di questo libro molto interessante e tanto, tanto malinconica.
Un compromesso, forse, per iniziare a rendersi conto di quanto tutto fu ingiusto e crudele, ma con un piccolo passo indietro per non esserne schiacciati.
Chissà, magari un giorno riuscirò a leggere queste testimonianze senza filtri.